( Gino Girolimoni 1946-2012)
Partiamo dalla situazione dell’agricoltura: quarant’anni fa mio padre Olindo, per comprare il trattore, trovò il denaro occorrente vendendo quattro vacche marchigiane; oggi a mio figlio Giovanni ne occorrono 40. Allora con il valore di due querce secolari e 100 quintali di grano si costruiva una casa; oggi occorrono 20000 quintali di grano, per produrre i quali occorrono 500 ettari di terra: quando crolleranno le nostre case non avremo più i mezzi e la possibilità di ricostruirle. Bisogna partire da qui per inquadrare il problema, altrimenti non si cava un ragno dal buco. C’è poi la questione di come abbiamo fatto a produrre tutte queste quantità: usando a profusione nitrati e diserbanti, una pratica barbara; in confronto gli Unni erano dei signori raffinati. A questi due problemi, il valore delle derrate agricole prodotte r l’inquinamento, venti o trenta anni fa abbiamo cercato di rispondere con l’agricoltura biologica e l’allora Comunità europea nel 1992 emanò un regolamento tanto per accontentarci, pensando che non saremmo andati lontano. Un maggior prezzo del 20-30% e canali di vendita recuperati che l’agricoltura convenzionale non aveva più (1000 negozi “bio” e 1000 erboristerie).
In Emilia-Romagna negli anni Novanta avevo un “nemico”: l’ex assessore regionale Guido Tampieri, grande paladino dell’agricoltura integrata, che per me era un ibrido come il mais americano. Poi invece Tampieri si convinse del biologico e favorì il passaggio di quel suo esperimento “integrato” al biologico, fornendo all’agricoltura regionale una chance importante. Lo testimoniano i produttori biologici eminenti come Luca Martora, responsabile agricoltura della Margherita, Graziano Poggioli, assessore al ramo della Provincia di Modena, Francesco Baldarelli, responsabile area agricoltura Ds.
Il declino attuale del biologico – parlo dei cali di aziende e superfici del 2004 – è un segnale inquietante che farà anche contento l’ex ministro Veronesi e il gruppo di scienziati che inneggiano agli Ogm e al nucleare, ma che dovrebbe rendere tristi gran parte dei cittadini-consumatori. Le cause principali di questo declino sono essenzialmente due: 1) le scelte commerciali dell’industria alimentare nostrana, a cui non interessa nulla di Mazzini e Garibaldi e compra le materie prime in giro per il mondo dove costano meno; 2) l’atteggiamento di istituzioni e privati, che amano declassare il biologico ad un metodo di produzione agricola, come il tipico, i marchi Dop e Igp, e non uno stile di vita, un costume, la proposta unica, dopo i decenni dell’esodo dalle campagne, di ricostruirle con un’economia sana, produttrice di cibi buoni, la cui produzione non facesse danni ai suoli, all’acqua, all’aria, alla salute.
Questo stile di vita biologico non riguarda solo l’agricoltura, ma abbraccia anche i temi del commercio equo e solidale, la bioedilizia, le medicine dolci. Se uno Stato (l’Austria ne è un esempio) o una Regione vuole puntare su questo settore e farlo diventare un comparto importante, che rappresenti almeno il 10% del settore, deve intervenire a vasto raggio (cultura, informazione, promozione nei mercati, formazione, ristorazione pubblica), con tre azioni che considero prioritarie:
1) destinare una parte di quel 10% dei fondi del Piano d’azione europeo da ridistribuire a chi non fa danni all’ambiente e a chi produce foraggi per il bestiame, poco premiati dai piani regionali di sviluppo rurale;
2) promuovere il biologico acquistando spazi promozionali nei punti vendita, mettendo insieme proposte commerciali di un certo numero di aziende;
3) per le mense pubbliche (scuole, ospedali), fare bandi come il Comune di Roma, chiamati del “bio dedicato”, nei quali è possibile coinvolgere tutta la filiera produttiva.
Io, ostinatamente, credo che il settore meriti una maggiore considerazione, maggiori risorse, maggiore gratitudine, anche se questa voce è sparita sia dalla politica, sia dai vocabolari.

NELLA FOTO: la porta della cucina di Montebello e Gino Girolimoni