Il cibo ribelle smaschera gli inganni dell'industria alimentare, per riappropriarci del nostro diritto alla salute, dire addio alle monocolture inquinanti e riscoprire il cibo autentico su scala locale.

Nei paesi ricchi possiamo decidere cosa mangiare almeno tre volte al giorno: c'è forse una scelta più importante che possiamo fare per noi stessi e per il pianeta? L'abbondanza di cibo sugli scaffali è solo una gigantesca illusione, perché le nostre diete sono sempre più povere, minacciano le risorse del pianeta e uccidono il significato profondo del cibo, ridotto a carburante o a esibizione nei cooking show.

I tempi della pandemia impongono un cambio di rotta: è giunta l’ora di dire basta alle menzogne diffuse dall’industria alimentare e riappropriarci del nostro diritto alla salute e alle produzioni locali. Nei paesi ricchi possiamo decidere cosa mangiare almeno tre volte al giorno: c’è forse una scelta più importante che possiamo fare per noi stessi e per il Pianeta? L’abbondanza di cibo sugli scaffali non è solo una gigantesca illusione?
Le nostre diete sono sempre più povere, esauriscono le risorse e uccidono il significato profondo del cibo, ridotto a carburante o a esibizione nei cooking show. Serve uno scatto di consapevolezza. Ecco che insieme a grandi esperti come il dottor Franco Berrino e la scienziata indiana Vandana Shiva, andiamo a smascherare gli inganni del marketing, per dire addio alle monocolture e riscoprire il cibo vero. Un viaggio di andata e ritorno dal campo alla tavola, dentro i territori, tra cereali, legumi, frutti autoctoni, e le trasformazioni artigianali che valorizzano le qualità degli alimenti. Un salto nel mondo del gusto e della biodiversità, per una nuova alleanza tra buongustai, ricercatori, mugnai, cuochi, cittadini comuni e nuove avanguardie rurali.


Liberarsi dal cibo industriale, riscoprire i sapori e ritrovare la salute


Il cibo ribelle è un progetto nato in collaborazione con La Grande Via, arricchito dai contributi di grandi nomi come Franco Berrino, Salvatore Ceccarelli, Vandana Shiva, Carlo Triarico. È la rampa di lancio di un progetto ancora più grande, per mettere in circolo tutte le più importanti conoscenze in tema di alimentazione, ambiente e agricoltura. E per permettere di chiamare a raccolta tutte le realtà italiane impegnate per il bene della terra.

Perché la scelta di questo nome, cibo ribelle? «Ribelle perché ristabilisce il valore dei semi, dei territori e delle persone che producono cibo, al di là delle omologazioni della grande industria agroalimentare» commenta Gabriele Bindi. «Siamo di fronte a un colossale inganno, un gioco di prestigio che bisogna a tutti i costi smascherare. Sembra un grande paradosso, ma proprio quando gli scaffali sono pieni e le dispense traboccano, andiamo incontro anche nel nostro mondo opulento e sprecone a carenze alimentari. E mettiamo a soqquadro gli equilibri planetari, costringendo alla fame o all’emigrazione di miliardi di persone nel mondo. Ormai non è più tempo di aspettare, bisogna ribellarsi. La buona notizia è che lo si può fare stando seduti a tavola: si può, anzi, si deve partire dal cibo. È la scelta più concreta. Non c’è scelta più determinante sulle sorti del pianeta, dell’economia, della salute, che mangiare cibo vero. Cibo ribelle».  



Il cibo ribelle: intervista a Vandana Shiva


Il 2020 resterà noto come l’anno dell’irruzione di una nuova pandemia. Cosa ci ha insegnato il Covid-19 rispetto al cibo?


La pandemia del Coronavirus ha messo in luce due aspetti: non solo il cibo industriale crea condizioni di diffusione del virus negli ambienti di lavoro, ma crea anche le condizioni per rendere le persone più vulnerabili, indebolendo la loro risposta immunitaria e facendole ammalare di malattie croniche, quella comorbidità che nella maggior parte dei casi ne ha causato la morte. È un circolo vizioso che evidenzia i limiti del sistema alimentare del cibo globale.

Per riscoprire la biodiversità a tavola dobbiamo pensare anche al gusto e difenderci dal riduzionismo imposto dall’industria alimentare. Credi sia possibile oggi una rieducazione in tal senso? Come possiamo valorizzare la complessità dei gusti rispetto alle semplificazioni di cibi grassi, dolci e salati?

È un argomento complesso e ricco di sfumature. Credo però che il gusto non possa essere educato come un valore di consumo, ma come una relazione ecologica; bisogna riuscire a capire da dove proviene e smascherare gli inganni. È fondamentale ripristinare il gusto come dimensione ecologica, perché esso fa parte della natura. L’aroma viene sprigionato dal seme e dalla terra. C’è un rapporto ecologico tra la percezione e la natura, si tratta di riscoprirlo, liberandoci da tutti i condizionamenti e gli inganni del fast food e della trasformazione industriale del cibo.

Oggi viene riconosciuto, e sempre più apprezzato, il cibo biologico e locale. Le leggi di mercato però penalizzano fortemente le produzioni artigianali rispetto al biologico prodotto su scala industriale. Serve uno scatto di coscienza anche nel mondo del bio?

Sono convinta che la sola certificazione del biologico non possa bastare. Si tratta dopotutto di un sistema centralizzato, esterno e controllato dall’alto. Riguardo ai piccoli produttori non bisogna dimenticare che è dalla creazione del Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio) che nasce il problema, con la sottoscrizione di accordi internazionali per criminalizzare il cibo locale. Per l’industria c’è una deregulation totale. Può fare quello che vuole, mentre per i piccoli contadini e artigiani del cibo vengono imposti dei requisiti igienici che sono impossibili da rispettare. Serve una vera ribellione rispetto a questa ingiustizia. Abbiamo bisogno di un vero risveglio per proteggere il cibo nel momento in cui viene prodotto, in cui viene trasformato e distribuito.

Gli italiani hanno sempre posto molta attenzione al cibo, ma la scena culturale è occupata dai grandi chef che sanno ben poco di agricoltura e di ambiente. Come parlare di biodiversità e cibo nell’era del food porn?


Paesi con una lunga tradizione alimentare come l’Italia, o l’India, non hanno solo un vantaggio culturale. Hanno una precisa responsabilità. Se possiedi qualcosa che gli altri non hanno, il tuo compito è quello di condividerlo. Condividere la conoscenza di cosa significa avere il cibo vero rispetto al junk food di matrice americana, che ha una storia inesistente, è un valore importante. Il 75% della distruzione globale viene dal sistema industriale invasivo, che usa il 75% delle risorse globali ma contribuisce unicamente alla produzione del 25% del cibo disponibile su scala mondiale. La maggior parte del cibo, circa il 75%, proviene da piccoli agricoltori che non contribuiscono in modo significativo all’inquinamento, allo sfruttamento dei suoli o all’insorgenza delle malattie. Il modello industriale sta assoggettando il mondo agricolo, secondo un modello predatorio di stampo coloniale. Vogliono creare schiavi in un gigantesco sistema di monocolture come cotone, soia, mais, con pochi agricoltori addetti alla produzione di materie prime, da trasformare poi a livello industriale. Vogliono un modello di produzione digitale, con un cibo ridotto ad un aggregato di proteine e carboidrati. Dobbiamo essere capaci di ricostituire il cibo vero. Perché il fake food, il cibo finto, sta dilagando.

Ma non dobbiamo temere. Con i loro soldi non potranno rubarci il nostro pensiero e la nostra libertà. Dobbiamo uscire dal modello industriale globale, che non include solo il cibo, ma tutte le altre sfere economiche. È un compito di tutte le persone ribellarsi per difendere la nostra libertà, la nostra salute, il nostro cibo.

Cos’è per te il cibo ribelle?


Il cibo ribelle, o la rivoluzione del cibo, è il cibo semplice, consumato vicino al luogo di produzione. Semplice a cominciare dalle distanze, ma semplice anche perché ha un processo di trasformazione ridotto e non si avvale di nessun input chimico esterno. È un cibo libero, svincolato da tutto ciò che non appartiene al cibo stesso. Più che di certificazioni esterne abbiamo bisogno di relazioni, di un rapporto di maggior fiducia con il mondo produttivo. È la stessa comunità che può eseguire il migliore controllo sulla produzione. Se sono un agricoltore non ho bisogno di un sistema di controllo poliziesco, ho bisogno di maggiore comunità, e magari di certificazioni partecipate dalla comunità, basate sulla fiducia.

Cibo ribelle significa reclamare il cibo come un bene comune. La comunità è la garanzia migliore di qualità e vera partecipazione. Questa per me è la democrazia del cibo. Questa battaglia di cui parli vede la partecipazione di ogni cittadino. Quali sono secondo te le azioni che ognuno può compiere da subito per garantire un futuro ai beni comuni?

Ogni cittadino può iniziare a boicottare l’economia del veleno. Se ci limitiamo a essere consumatori di cibo, individualmente e socialmente, saremo mangiati dallo stesso cibo, ma noi non vogliamo collaborare con chi produce veleni e malattie. Contadini e orticoltori devono essere in ogni luogo della terra. Dobbiamo uscire dalla logica industriale. Cibo ribelle per me significa, oltre che lottare per il proprio futuro, lottare per la propria salute e la propria libertà di pensiero, recuperando la capacità di distinguere il vero dal falso, compreso il gusto di cui abbiamo parlato.

La ribellione inizia dunque dalla divulgazione e dall’informazione indipendente?


Viviamo in un’era di fake news, fake science, fake food. Abbiamo il salmone artificiale costruito in laboratorio, ma anche tanta informazione distorta. Dobbiamo recuperare cibo vero, vera comunicazione, vera informazione. La saggezza delle nonne indiane ci dice una cosa semplice: se mangi male penserai male. La risorsa è la biodiversità, abbiamo bisogno anche di biodiversità nel modo di pensare. Ciò che oggi fa più paura al potere è il pensiero libero e indipendente, il pluralismo. Non servono solo più menti con più capacità, serve anche ritrovare apertura mentale in ogni singola persona, perché queste facoltà le abbiamo per natura. Non dobbiamo perdere la fiducia nelle nostre capacità di pensiero, né la fiducia nel ruolo della nostra cultura e della nostra comunità.

L’intero processo di industrializzazione in fondo si riassume in questo: la perdita di competenze e di fiducia in se stessi e negli altri. Per me, la libertà è una mente che sa ribellarsi, che sa dire no. La mia mente non è separata dal mio corpo, come intendeva Cartesio. Coltivare buon cibo significa coltivare una buona mente. Oltre alla democrazia del cibo, abbiamo bisogno di una democrazia della conoscenza.



Il cibo ribelle, di Gabriele Bindi, Terra Nuova Edizioni, 2020.